Quando lo vedi, sforzandoti
di essere razionale, pensi a tutto fuorché a quello che invece è.
Poi, quando gli parli, ti rendi conto di esserti sciolto lungo i sentieri
di stupidi pregiudizi e provi un senso di vergogna, perché lui è il
contrario dell'apparenza.
Ma esiste un'apparenza da codificare? L'intelligenza dice di no, eppure
l'inconsapevole Lombroso, noto criminologo della fine dell'ottocento,
stendendo la sua famosa teoria, diede vessilli a quell'idiota conformismo
sempre pronto a fare capolino anche un secolo dopo.
E se uno studente di scienze sociali trova la forza per rendersi conto
che la teoria "lombrosiana", altri non era che una semplice "scemenza"
in grado di competere con quella di Bussuet, che definiva il "re,
come la pittura di Dio in terra", è indubbio che per ancora troppi
"gnavi" quotidiani, il
"Lombroso pensiero" rivesta
le sembianze di un inconscio credo.
Il protagonista non ancora menzionato di queste constatazioni, si
chiama Enrico Strocchi, ha trentasei anni e vive in Vecchiazzano.
La sua figura ed il suo "look" ricordano Peter Fonda nel celeberrimo
Easy Rider, un film entrato nella cultura di una generazione che non
è quella di Enrico che, ai tempi di quell'opera, non andava nemmeno
a scuola.
Col Fonda del film, ci sono altre similitudini che lo Strocchi non
copia, per capirlo basta parlargli.
Dietro le cadenzate parole, Enrico evidenzia serenamente schematiche
concezioni che trovi non conformiste e già basta questo per definirlo
artista. Tanto più oggi, nell'era delle ipocrisie e di telecomandate
fotocopie.
I lunghissimi e riccioluti capelli biondi e l'altrettanto lungo pizzetto
color "stoppa", ne fanno figura evidente anche ai miopi più forti
e la sua passione per lo sport, ci fa ricordare un altro personaggio,
Ruben Hugo Ayala, detto Ratòn, che deliziò i pregiati campi di calcio
d'Argentina e Spagna negli anni settanta. Anche del Ratòn, Enrico
non copia nulla, perché di quell'Ayala non conosce nemmeno l'esistenza.
Insomma Enrico Strocchi, nella vita muratore, fin dalla non comune
figura esteriore, al suo non conformismo, ci richiama ad una realtà coi segni di quell'artista che poi diviene compiutamente, anche se
non se ne rende conto.
L'arte inconsapevolmente scelta è la più vecchia, ma spesso la meno
praticata: la sfida con se stessi.
Il ciclismo eroico, lo strumento fino ad oggi usato.
E lo sport, si badi, nonostante tutto quel che si dice, è, e rimarrà,
una forma d'espressione e, quindi, d'arte.
Il romanzo, o la scultura, o la pittura, o la recita, o la sfida con
se stesso di Enrico Strocchi, hanno scelto come teatro il freddo e
quel pavè, o meglio i sassi e le sconnesse pietre delle Fiandre, terra
mitica per il ciclismo e la fatica. Palco per palati fini che intravedono
nella sofferenza e nei grandi valori di questo sport, oggi bistrattato
da tristi figuri ed epitaffi di Cassandra seduti sulla comoda poltrona
d'un osservatorio vuoto di contenuti, un limpido modo per essere,
ed esprimere in un gesto, un sunto di ciò che è la vita:
il più vero condensato di dolori da sconfiggere fra pochi immanenti
e consapevoli sorrisi.
Enrico, dal passato ciclistico ininfluente e con un presente non organizzato
in un gruppo sportivo amatoriale, con la sola sua forza interiore,
partì lo scorso anno per correre la versione non professionistica
della
Parigi-Roubaix, l'inferno delle corse ciclistiche, per
i francesi divenuta monumento nazionale, capace perfino di fermare
le ruspe del progresso.
Su
quel pavé che rende il ciottolato di Piazza Saffi autostrada di purissimo
asfalto, su quelle pietre che ti infrangono la spina dorsale e che
fanno bestemmiare la stessa bicicletta, giunse secondo.
Sentì, entrando nel velodromo di Roubaix, l'applauso sincero di migliaia
di persone accorse su quegli spalti pur sapendo che quegli interpreti
non erano i big, o i campioni più conclamati.
Enrico si inebriò dei richiami e del pathos trasmesso da quel luogo
terminale di immane fatica, scenario di memorabili pagine del grande
romanzo del ciclismo. Capì ben presto che era stato grande e che le
sue facoltà fisiche e psicologiche avevano superato gli argini del
superficiale ed agnostico osservatorio della cronaca. Seppe che quelle
pietre e il loro amico freddo, sempre pronti a far partire una soffocante
polvere in caso di giornata senza pioggia, o quel bruciante fango
in caso di tempo piovoso, erano l'istmo evidente della sfida che cercava.
Il secondo posto raggiunto, inoltre, dimostrava la sua tangibile brillantezza
e bravura.
Tutto questo imponeva un ritorno ancor più cercato e magari più suggestivo.
Una replica che ha trovato sabato scorso uno scenario ancor più sofisticato
della Roubaix: il
Giro delle Fiandre.
La classica probabilmente più difficile da improvvisare perché il
terribile pavé, o meglio le sconnesse pietre, non si presentano su
pianeggianti terreni, ma su quelle corte e ripide salite chiamate
"muri", che spezzano le gambe e che sono piene dei
richiami di quelle sirene che ti dicono di ritirarti.
Ben settemila eroici ciclisti, o amatori, o cicloturisti, chiamiamoli
come vogliamo, si sono presentati al via di Brugge, un record per
una prova così dura e per taluni aspetti così pericolosa.
Fra questi la chioma di Enrico Strocchi raccolta con fatica sotto
il casco.
Duecentosettanta chilometri da pedalare nel freddo vento spesso contrario
delle Fiandre,
sedici "muri" densi di folla attenta ad osservare
la capacità umana di fronte alla sofferenza.
Pianure
e luoghi il cui richiamo italiano, traspare fra quel miscuglio di
tedesco, francese e dialetto che è la lingua fiamminga, grazie alle
grida di centinaia di nostri connazionali emigrati la in questo secolo,
alla ricerca d'un lavoro nell'edilizia o in miniera.
Enrico ha pedalato col ferro-forza delle sue gambe, ha superato fra
gli altri i terribili Wolvenberg, Molenberg, Kluisberg, Paterberg,
Taaienberg, Tenbosse e l'ancor più terribile Muur-Kapelmuur (il muro
per eccellenza). Ha sgretolato i sassi col pensiero fino a farli apparire
una miriade di trampolini.
Ha pian piano staccato tutti fino a vedere solitario la cara Meerbeke
dei leggendari arrivi di Fiorenzo Magni (il "leone delle Fiandre),
Eddy Merckx,
Eric Leman,
Joan Museeuw ecc...
e s'è presentato a raccogliere lo stremato profumo della gloria, prima
di tutto con se stesso.
Al mite, simpatico e generoso Enrico non importa sapere che s'è lasciato
dietro, fra le migliaia di comunque storici concorrenti, diversi e
titolati ex professionisti o dilettanti di valore. Lui ha dipinto
il suo quadro, o scolpito la sua scultura, con l'arte di chi osa combattere
il risaputo, sullo sfondo di un orizzonte non conformista.
E manco gli interessa sapere che è il ciclista dalla più lunga chioma
giunto primo su un traguardo del mito del ciclismo.
I suoi premi li ha pure avuti e se li sta gustando con l'immanenza
di chi è nel suo genere un artista:
il bacio di Sandra, sua moglie e altra talentuosa metà di una coppia
fantastica; l'abbraccio del fratello Daniele e degli amici Riccardo
e Francesca suoi accompagnatori nella trasferta delle Fiandre.
Anche l'attestato-brevetto consegnatogli dagli organizzatori, l'intervista
alla televisione belga e le foto con Gianluca Bortolami, vincitore
fra i professionisti, sono premi che non dimenticherà.
Altri li sta raccogliendo in questi giorni: le felicitazioni delle
atlete dell'Alfa Lum Rsm, sodalizio di cui assieme a Sandra è accompagnatore
e riferimento quotidiano e quelli degli amici Fabio Sansovini, Simone
Agatensi, Luigi Dotti ed Oreste Zaccarelli che lo hanno aiutato e
sostenuto nell'affrontare l'impresa.
Domani tornerà fra le pietre del suo lavoro, quelle del mito le ha
ben stette nel suo cuore e nel suo pensiero, mentre si affacciano
e fanno capatina i grattaceli di New York.
C'è un'altra sfida da raccogliere: la maratona più famosa.
Enrico Strocchi sa che nel podismo è meno che un principiante, ma
questa è la vita degli artisti del confronto col proprio io.